Maternità: la risposta a un grido d’aiuto
Essere madri significa saper rispondere al grido. Con queste parole si può riassumere il senso della puntata di Lessico famigliare, dedicata appunto al tema della madre.
Se per Freud la mamma rappresenta il primo soccorritore per ogni bambino, colei cioè che è in grado di dare aiuto e fornire sostegno in caso di bisogno, per la Chiesa di Papa Francesco è il simbolo dell’accoglienza e dell’amore incondizionato delle differenze e delle minoranze. E’ quell’”eccomi” biblico che garantisce una presenza.
Essere madre non rappresenta, per la maggior parte dei pensatori e dei filosofi, uno status quo biologico e naturale, non riguarda semplicemente la stirpe. Essere madre significa avere la capacità di dare aiuto e regalare accoglienza ogni qualvolta una vita indifesa lo chieda.
Quali sono i volti della madre sui quali Massimo Recalcati riflette?
Il primo volto è rappresentato dalle mani: la madre, attraverso le mani, è in grado di aiutare e sostenere il bambino, di abbracciarlo, di sostenerlo, di dargli un appoggio e di aiutarlo a rialzarsi in caso di caduta.
Il secondo volto è rappresentato dallo sguardo. I primi occhi che il bimbo incontra dopo la nascita sono quelli della madre, quindi lo sguardo della madre diventa per il bambino la visione che avrà sul mondo.
Se questo sguardo è sereno e felice, l’orizzonte del mondo per il bambino si dilata ed espande, se invece è cupo e depresso coprirà il mondo e ne determinerà una visione limitata e buia.
A riflettere su questo importante tema fu Donald Winnicot, medico e pediatra inglese della fine Ottocento, che elaborò una sua teoria, basata proprio sull’assorbimento dello sguardo materno da parte del bimbo. Se la madre è depressa – Winnicot trae la sua dottrina da un’esperienza personale ed autobiografica – il bambino diventa come un piccolo meteorologo che, anziché guardare il volto del mondo, spia l’arrivo delle nubi, dei temporali e delle tempeste perdendo il bello che il mondo gli può dare.
Nell’ambito della psicoanalisi sperimentale, sottolinea Recalcati, merita una menzione uno studio
condotto negli anni ’50 dal viennese René Spitz. Andando in un orfanotrofio, al cui interno venivano date e fornite tutte le cure necessarie alla soddisfazione dei bisogni primari dei bambini, lo studioso vide che queste cure non erano sufficienti alla crescita completa dei bambini poiché mancava un elemento primario: il desiderio della madre.
Dove c’è la madre – evidenziò Spitz – c’è un’attenzione particolareggiata e non vi è la cura anonima e sterile delle infermiere. Da questi due differenti approcci scaturisce un’incolmabile differenza che determina un esito educativo diametralmente opposto. La cura materna dà senso alla vita e la potenza dello sguardo della madre è quella di trasformare ogni figlio in un figlio unico ed insostituibile. La cura delle infermiere permette ai bimbi di crescere, di nutrirsi e di soddisfare le esigenze primarie, ma non dà l’affetto e le attenzioni indispensabili per una buona crescita, dal punto di vista affettivo.
Ma cosa implica per una donna la maternità? Quali meccanismi innesca?
L’analisi di questa tematica, assai forte e delicata al tempo stesso, porta Recalcati a mettere in primo piano una contraddizione che si trova proprio all’interno della maternità: il contrasto tra perdita ed appropriazione.
Se da un lato una donna porta nel suo grembo per nove mesi una vita, quindi ha in sé fortissimo il senso di appropriazione, dall’altro sa, che al momento del parto e poi durante la crescita, perderà il figlio. In ogni madre convivono e coesistono quindi due anime, una appropriante e l’altra no. La maternità più sana è quindi quella che dà ospitalità senza proprietà ed è quella in cui convivono armoniosamente le figure della donna e della madre.
In un’epoca come la nostra, in cui molte donne lavorano e cercano la loro realizzazione personale nel lavoro, è molto elevato il rischio che la maternità venga vissuta come un handicap o un ostacolo alla carriera. La donna che rifiuta il suo lato materno e che non vuole rinunciare al lavoro per avere un figlio sviluppa in sé una patologia narcisistica che la porta a vedere nella maternità un danneggiamento della propria femminilità.
Recalcati mette invece in risalto la maternità sana, evidenziandone i lati più belli e più costruttivi per un bambino. Una madre capace di non rinunciare al suo essere donna, di coltivare i suoi interessi nel mondo, di non esaurirsi nel figlio e di trascendere dalla maternità sarà una madre capace di separarsi dal figlio e di dargli, oltre che al desiderio iniziale, anche lo slancio alla vita e di dire oltre che all’”eccomi” iniziale anche il “vai e fai la tua strada”.